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Scaramanzie all'ombra del Vesuvio
La Repubblica - Rodolfo Di Gianmarco - 01/03/1991
IN TEMA di napoletanità è indiscutibile che nel suo piccolo la Compagnia del Teatro delle Muse faccia sul serio. Il battesimo di Non è vero.., ma ci credo di Peppino De Filippo è iniziato l'altra sera alle 22, e non prima; il cast degli attori con al vertice Giacomo Rizzo, qui nel ruolo dell’imprenditore scaramantico, era partenopeo a prova di bomba; il pubblico in sala, tra cui Giacomo Furia e Gigi Reder, testimoniava una bella omertà di passioni e culture nate comunque sotto l’egida del Vesuvio; il suggeritore interveniva sempre a squarciagola come è tradizione nelle ditte di prosa del nostro glorioso meridione scarrozzante; al centro della scena, sulla scrivania del superstizioso commendator Savastano, campeggiava un corno fallico eretto su una base in finto oro; e poi, con lo svilupparsi della commedia, s’assisteva a un’allergia per gatti neri, a un timorpanico per jettatori, a rimedi che vanno dallo sputo sulla spalla alla demarcazione sul pavimento tanto per esorcirzare, ovunque in clima di feticismo, di espedienti propiziatori, di benefica irrealtà.
E ci vuole un infallibile estro intellettuale, ci vuole l’appartenenza a qualche scuola di vita napoletana, per calibrare un avvenimento così fino in fondo inneggiante al luogo comune (ma non troppo) delle cabale e dei pregiudizi.
Peppino De Filippo vi ricavò nel 1942, per I ‘appunto, una commedia comica ed esemplare sul modello, per intenderci, della spiccia ma altrettanto feroce "Patente" di PIrandello. Non molto tempo do po ne vedemmo un’edizione realizzata dal figlio Luigi. Ora l'iniziativa è di questa stabile romana che si concentra già da alcuni anni su una drammaturgia, o meglio su un repertorio di autori di Napoli. L’occasione è, nel complesso, godibile. Rappresenta un punto d’incontro con l’artigianato, con le tecniche mai vecchie del riso, dell’arguzia spassosamente nazional-popolare.

Quasi superfluo, per la circostanza, ammannire una trama nota o prevedibile: diciamo che un tignoso commendatore se la fa sotto per la paura cui lo sottopone ogni menagramo di transito; in ditta licenzierà un impiegato ufesco e assumerà in fretta e furia un candidato gobbo, apparentemente in grado di assicurargli bel tempo, ottimi affari e provvidenze varie nel tran-tran quotidiano. Costui verrà Idolatrato come Tartufo, e malgrado la gibbosità (che poi si scopre essere un sotterfugio a fin di bene) sposerà la figlia del nostro. Epilogo roseo a parte, Non è vero... ma ci credo è un esilarante inventano dei fanatismi, del malocchio e di ogni castroneria di proverbiale origine. Lo conferma anche il prodotto odierno, con la regia quieta ma puntuale di Antonio Ferrante. Lo spasso è garantito da Giacomo Rizzo, una maschera di malumori ed estasi che merita a pieno (ma con più basso volume del rammentatore) d’essere apprezzata. Accanto a lui fa centro la figura del contesissimo tuttofare gobbo Sammaria, cui Rino Santoro dà un alone di bieco Policarpo. E Wanda Pirol è una consorte d’acciaio e d’acido. Citiamo anche Claudio Veneziano, Alessandra Borgia. Scene anni 50 di Patrizia Boca. Costumi di Giada Calabria.
Al Teatro Delle Muse