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Paese Sera - (G.R.) - 11/05/1989
Assisto, al Bellini, ai Due gemelli napoletani, che Tato Russo ha tratto da Plauto e penso al tamarindo. Voi potete stare autunni e inverni dietro il bancone di un bar e nessuno vi chiederà mai quello sciroppo. Ma viene la bella stagione ed ecco la prima timida richiesta: "Si può avere un tamarindo?" Potete avere papaja, mango, tutti i gusti più nuovi, ma c’è sempre chi vi chiede il buon vecchio tamarindo. Plauto è come il tamarindo: si "porta" d’estate. Ecco, allora, a fine stagione e sulla stessa scena, prima lo ‘Nfitrione, nella libera elaborazione di Casagrande e ora quest’altra libera riscrittura dei Menaecmi.
Magari l’occasione per riconsiderare il tema del "duplice inganno" tanto presente nell’opera plautina (Bacchilidi, Captivi, ecc.) e qui portato a vertici magistrali. Se il Sosia dell’Anfitrione è diventato antonomasia di sdoppiamento, i due Menaecmi monozigoti rappresentano il prototipo della coppia comica, con uno che dà e l’altro che prende; con la mirabolante invenzione dell’unico attore spalla di se stesso e la circostanza, non priva di significato, che qui è il caso a tramare gli inganni. Ma scusatemi: parlavo di Plauto e qui Plauto non c’entra. Nessuno parla del meccanismo di Amleto.
Le tragedie per noi hanno solo il contenuto; le commedie solo la forma. Così lasciamo stare Plauto (altrimenti questa recensione finirebbe qui) e consideriamo questo spettacolo per le finalità, che si prefigge.
E in questo orizzonte credo che tutto funzioni abbastanza: il regista Antonio Ferrante lo ha ben confezionato con tempi giusti, Renzo Lori lo ha corredato di bei costumi e una scena un po’ inerte, ma non priva di suggestione e Antonio Sinagra ha scritto musiche evocative e sensuali, impregnate di afrori orientali, quasi che Neapolis fosse una Samarcanda o una Bagdad dei sortilegi.

Ovviamente il merito principale è degli attori. Di Tato Russo, in primo luogo, interprete dell’uno e l’altro fratello, che, specie nel Menaecmo capuano, tesse una fitta citazione di modelli recitativi (da Eduardo a Peppino, dal Totò-Diabolik ai guappi da sceneggiata, con qualche puntata nelle comiche del muto), omologandola con una divertente caratterizzazione cafona e con un ben gestito ritmo scenico. Molto corposo e persuasivo il Messenione di Lucio Allocca, disperato testimone e vittima di un caso prodigioso e capriccioso. Apprezzabili (e di fatto apprezzate dal pubblico) le due caricature di Tino Cervi, benchè la prima, quella dell’eunuco, giocasse su troppo riconoscibili convenzioni. Giustamente plebeo lo Spazzola di Mario Porfito, esplicito e immediato.
Delle due prime donne, Gabriella De Luzio poteva contare sulle maggiori possibilità del ruolo di Erozia, mentre Patrizia Spinosi veniva un po’ penalizzata dalla sua parte (di quelle, che nel vecchio teatro si dicevano "tinche"). Da segnalare anche la fresca grazia efebica e le eleganti movenze di Alessandra Borgia. Qualcosa si potrebbe dire sulla incongruenza dui certi registri linguistici di questa trascrizione, su certi fastidiosi relitti (atque, tesauro, ecc.), su spade medievali e anacronistiche posate... Ma questo implicherebbe un rapporto con Plauto e allora, come ho detto, questa recensione doveva molte righe più sù.